Una morte dieci volte più lenta di qualunque altra fine analoga conosciuta. Osservata e studiata attraverso gli occhiali per raggi X di tre telescopi spaziali: Chandra, Swift e Xmm-Newton.
Il fenomeno, seppur apocalittico quanto a masse ed energie in gioco, è abbastanza semplice dal punto di vista fisico: la stella, essendosi avvicinata troppo, è rimasta avviluppata nelle spire gravitazionali del buco nero, che ha cominciato a divorarla, attraendone il gas verso di sé. Ora, è vero che un buco nero trangugia di tutto, luce compresa, ma la materia risucchiata dalla stella, prima di precipitare al di là dell’orizzonte degli eventi, si surriscalda fino a raggiungere milioni di gradi: una temperatura che comporta l’emissione di bagliori in banda X – flares, come li chiamano gli astrofisici.
Ed è proprio analizzando questi flares che i tre telescopi spaziali sono riusciti a ricondurli a un tidal disruption event: espressione inglese che indica il processo di disintegrazione d’un oggetto – in questo caso la stella smembrata dalle forze mareali del buco nero supermassiccio, nome in codice XJ1500+0154, che abita nel cuore d’una piccola galassia a un miliardo e 800 milioni di anni luce da noi.
Servizio di Marco Malaspina
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