
Una tecnica medica innovativa e non invasiva che si preannuncia rivoluzionaria: parliamo della ricerca scientifica messa a punto da un team di ricercatori presso il Brain Institute, University of Queensland. I primi test sugli animali da laboratorio, condotti nel 2018, dimostrerebbero la funzionalità degli ultrasuoni che sarebbero in grado di restituire la memoria ai pazienti affetti dal morbo.
Per compiere lo studio, i ricercatori sono riusciti ad attivare, grazie agli ultrasuoni, le cellule microgliali, ovvero delle unità biologiche atte alla rimozione degli elementi tossici presenti nel cervello, definite dagli esperti “una specie di netturbini”. “Il cervello di un paziente di Alzheimer è pieno di amiloidi tossici e normalmente questi netturbini dovrebbero compiere il loro lavoro, ma talvolta non lo fanno”, spiega Jurgen Gotz. Gli ultrasuoni stimolerebbero, quindi, l’azione delle cellule microgliali, favorendo l’eliminazione degli amiloidi e ripristinando la funzionalità della memoria.
L’utilizzo degli ultrasuoni permetterebbe di rimuovere gli elementi tossici, migliorando la memoria dei pazienti nei tre anni successivi al trattamento.
“Potremo ritardare l’età in cui si svilupperebbe l’Alzheimer. Usando la tecnica in una fase in cui la malattia non è troppo avanzata, questa può essere prevenuta anche in persone predisposte”, spiega Gotz. Nel 2019 la tecnica a ultrasuoni verrà sperimentata su un gruppo di pazienti affetti dal morbo di Alzheimer, presso il Brain Institute. I risultati del prossimo test saranno preziosi per un’eventuale inclusione della tecnologia come pratica medica per combattere la patologia. “Le prove sulla sicurezza umana alla fine del 2019 sono il prossimo passo, che rappresenta un investimento nella ricerca che è già in corso”, spiega il Professor Pankaj Sah.
Innovazioni anche dall’Italia – Grazie alle tecnologie di analisi dei dati sviluppate dai fisici per dare la caccia alle onde gravitazionali è possibile migliorare l’efficacia della Pet nella diagnosi di alcune malattie neurodegenerative, come la demenza a corpi di Lewy, simile all’Alzheimer in fase precoce. Lo dimostra lo studio pubblicato sulla rivista Annals of Neurology, condotto dal Policlinico San Martino di Genova, dall’Università di Genova e dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn).
Come riporta ANSA, la ricerca, condotta su 171 pazienti, grazie allo sforzo congiunto di fisici e medici ha permesso di migliorare la Pet (Tomografia ad emissione di positroni) per evidenziare le regioni cerebrali colpite dalla demenza a corpi di Lewy. “Finora gli studi su grandi gruppi di pazienti sono stati scarsi”, ha spiegato Silvia Morbelli, del Policlinico San Martino di Genova e dell’Università di Genova. “Ora, grazie a questo studio, la Pet si consolida come efficace strumento di diagnosi della malattia”, ha aggiunto.
Scoperta solo di recente, negli anni ’90, la demenza a corpi di Lewy è la seconda forma di demenza più diffusa dopo l’Alzheimer. “Non è stato facile estrarre le informazioni legate alla malattia a causa della grande eterogeneità dei dati”, ha spiegato all’ANSA il fisico dell’Infn Andrea Chincarini, responsabile dell’analisi dei dati.
Lo studio ha permesso di ricostruire le complesse relazioni tra il metabolismo cerebrale e i sintomi della malattia. “Il risultato – ha proseguito il fisico dell’Infn – ha richiesto un grande coordinamento tra lo sviluppo degli strumenti impiegati per l’analisi dei dati nella ricerca sulle onde gravitazionali e l’interpretazione clinica. Il nostro approccio è stato innovativo ed efficace. Un buon esempio di lavoro interdisciplinare, che – ha concluso – applicheremo nei prossimi mesi anche a un’altra malattia neurodegenerativa, la sclerosi multipla”.
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